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Rubrica: “Cose vecchie che diventano nuove” | La rivoluzione sociale del Bikini… ma da dove arriva?

Nell’estate di Caronte e delle mancate piogge (ahimè), scegliamo di ripercorrere la storia di una rivoluzione combattuta proprio sotto al sole: l’ascesa del bikini!

 

Chi l’ha detto che “nuovo” debba per forza essere un’invenzione? E se invece bastasse solo un modo diverso di  guardare?

 

Giugno 2022

Gli affreschi testimoniano la presenza delle donne in costume a due pezzi già nell’antichità, ma il suo disinvolto utilizzo era legato allo svolgimento di attività ginniche e sportive. Niente a che vedere, quindi, con il grimaldello di cambiamento sociale che esso ha rappresentato nella nostra epoca.

Neanche a dirlo, in Età Vittoriana il pensiero costante è stato quello di impedire che occhi estranei osservassero non solo il corpo, ma persino il momento in cui ci si liberava da organze e corsetti per una più comoda (!) versione di costume intero, il quale era comunque di un tessuto molto pesante e copriva parzialmente anche le gambe. Il cambio d’abito avveniva in una cabina non molto diversa da quella odierna, con un’unica differenza: a cavallo o a mano questa veniva poi trascinata in acqua per impedire che venissero violati codici comportamentali e contrari alla morale pubblica. Nei primi decenni del ‘900 le multe erano salatissime per chiunque violasse le norme e, per pochi centimetri di pelle scoperti, si citava pudore e buoncostume. Negli anni ’30 la prassi non prevedeva divisioni di genere, sia gli uomini che le donne si esponevano al sole indossando una tuta in misto lana e tessuto elasticizzato, super coprente e molto casta, identica sia per lui che per lei.

La rivoluzione però era alle porte, o meglio, a bordo piscina. Nel luglio del 1946 a Parigi, durante un contest di bellezza, l’ex ingegnere Louis Réard, che aveva lasciato il lavoro per dedicarsi al negozio di lingerie ereditato da sua madre, mette a punto il costume più piccolo mai pensatoA indossarlo la ballerina di nudo diciannovenne Micheline Bernardini, nessun’altra modella era infatti disposta a portare sul corpo un indumento tanto ridotto che, se piegato, era capace di stare in una scatola poco più grande di un cubo. A Réard si deve anche il nome “Bikini”, ispirato al nome dell’atollo nel pacifico in cui in quel periodo venivano compiuti esperimenti nucleari (con regolare cadenza settimanale!!), con la convinzione che la sua invenzione avesse lo stesso impatto detonante dell’atomico. Per dovere di cronaca, si registra che appena una settimana prima di Réard, il fashion designer francese Jacques Heim aveva confezionato un costume a due pezzi soprannominato “Atome” tentando di ottenere il primato di assonanza poi andato al “Bikini”.

Dalla fine degli anni Quaranta il successo è immediato, Réard guadagna milioni di dollari dalla sua intuizione. Il bikini ha il potere corrosivo di una rivolta, uno schiaffo alle norme sociali e culturali che volevano il corpo femminile perennemente celato, ed è il terreno della contesa sulla decenza e il pudore (per esempio accedere o meno a determinati stabilimenti balneari). Indossato dalle ragazze del jet-set in Costa Azzurra e nelle località turistiche d’élite, il bikini è osannato, condannato, sognato al pari di quanto viene indossato.

Come chiosa a questa passeggiata nella storia di un vecchio che diventa nuovo (e come immancabile consiglio non richiesto), vi invitiamo ad andare a vedere i bellissimi mosaici romani di piazza Armerina in Sicilia. Da parte nostra, nell’augurarvi buona estate e darvi appuntamento a settembre, vi regaliamo l’immagine di una statuaria Ursula Andress, giustamente scolpita nell’immaginario collettivo mentre emerge dall’acqua in 007 Licenza di Uccidere del 1962, con un costume total white venduto all’asta nel 2001 per 61.500, no dico sessantunmilacinquecento, dollari.

Quel modo di portare il coltello, invece, non ha prezzo.

Ma questa è un’altra storia. Saluti dalla vostra R.F.

Se non lo avete letto, qui potete trovare la storia di Maggio

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